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Il dimenticato campo di concentramento di Ferramonti

ferramonti

Nessuno o forse in pochi sanno che la Calabria  ospitò, negli anni bui delle leggi razziali, uno dei  principali campi di concentramento italiani, quello di Ferramonti a Tarsia (Cs). Oggi non ve ne rimane  alcuna traccia, i libri di scuola sorvolano sull'argomento, e pochi cenni se ne scorgono anche nei testi universitari.  Eppure a Ferramonti furono richiusi  3mila tra ebrei, apolidi e slavi.

Un'ottima ricostruzione ne è stata fatta nel film documentario “Ferramonti, il campo sospeso”, proiettato lo scorso 31 marzo alla presenza dello stesso regista Cristian Calabretta presso la Camera dei deputati. All'evento organizzato dalla associazione dei Calabresi nel Mondo “Brutium”, hanno partecipato tanti testimoni dell'epoca, tra cui l'ing. Leone Elio Paserman, oggi presidente della fondazione Museo della Shoah di Roma e che visse prigioniero a Ferramonti, e numerosi studenti delle scuole di Tarsia.  Il campo di Ferramonti fu aperto nel giugno del 1940. A scanso di equivoci, come raccontano gli stessi testimoni di questa brutta pagina della nostra storia nazionale, qui non morì nessuno. Ferramonti era un campo di prigionia che ospitò tanti professionisti, commercianti, artisti, musicisti e cantanti internati con la sola colpa di essere nati ebrei. Nei ricordi di chi visse quella triste esperienza, rimane il terribile caldo aggravato dalla presenza di numerose zanzare e cimici, mancavano i servizi. Furono anni terribili per gli ebrei italiani, sulla cui testa pesava una taglia di 5 mila lire per il capo famiglia, 3 mila per le donne e 1500 per i bambini. Una vera tentazione a cui, come si racconta, molti calabresi e in genere gli italiani seppero non cedere.

Ma come si svolgeva la vita quotidiana a Ferramonti? Era come un piccolo kibbutz  dove chi aveva possibilità economiche poteva fare acquisti dai contadini locali e non solo dallo spaccio interno. Per validi motivi, gli abitanti di Ferramonti  potevano anche andare fuori, recarsi per esempio a Cosenza. Non veniva di certo tralasciata l'istruzione, c'era infatti una scuola elementare, c'era una sinagoga e anche un frate come assistente spirituale. “Le condizioni – racconta l'ing. Paserman – furono abbastanza umane fino alla liberazione avvenuta nel settembre del 1943”. A dirigere il campo fu chiamato Paolo Salvatore, un legionario fiumano di 37 anni, di lui i sopravvisssuti dicono che non era un fanatico e non voleva fare del male, il suo fine era salvare le apparenze ed ebbe l'intelligenza di fare in modo che il campo si autogovernasse. Qualcuno ricorda che Salvatore disse tali parole profetiche: “Chissà tra un anno potrei essere io l'internato e voi i miei custodi”.

Il responsabile di Ferramonti era Eugenio Parrini, a cui era stato dato l'incarico di realizzare il campo visto che all'epoca si stava occupando delle bonifiche e in quel sito aveva già predisposto ben 92 baracche. Dopo la guerra, Parrini smise la camicia nera per indossare quella bianca, si associò con la Democrazia Cristiana e con il Vaticano ed iniziò a costruire chiese, insabbiando il suo passato fascista e di costruttore del campo d'internamento. Nella ricostruzione del film di Calabretta, Parrini appare nelle vesti di affarista sporco, dove da documenti conservati a Tarsia si evince che rifiutò persino di pagare le tasse. Nei ricordi dei testimoni, Parrini rese ancora più difficile di quella che sarebbe potuta essere la vita nel campo. Ferramonti fu in assoluto il primo campo di concentramento per ebrei ad essere liberato e anche l'ultimo ad essere formalmente chiuso, l'11 dicembre 1945.

Angela Francesca D'Atri